Eccoci di fronte al rischio di una nuova notte nera in cui tutte le vacche sono nere: nel buio della crisi, sfumano i contorni e aumentano le complessità, mentre le speculazioni si fanno sommarie e si ingrandiscono le pretese di assoluto. Prendete il tema “precarietà”, peggio se declinato come “precarietà del lavoro cognitivo”: si noterà come oggi, di fronte a esso, tendano a prodursi strane generalizzazioni, rimozioni, riflessi del secolo scorso, giudizi schematici. Un concerto di critiche che raccoglie alleati distanti tra loro. Per chiarezza, e in premessa, aggiungo che nessuno intende negare le difficoltà oggettive che si riscontrano su questo fronte da un punto di vista dei processi di soggettivazione politica (organizzazione e rappresentanza) né da alcune nuove contraddizioni. Così, la lettura del libro Diventare cittadini. Un manifesto del precariato (Feltrinelli 2015) di Guy Standing, figura di spicco del pensiero economico eterodosso europeo, mi ha fornito l’occasione per provare a riflettere su questo rimescolamento, muovendo da alcune necessarie ricostruzioni.
Fotografia di Alvin Langdon Coburn, 1910
Radici
Alla progressiva diffusione dei processi di precarizzazione del lavoro a cui tutti i Paesi europei si sono dedicati con particolare dedizione – per non dire accanimento – in questi venti anni, è corrisposta la nascita di nuove categorie e di nuovi ambiti analitici. Sorti, innanzitutto, dalle auto rappresentazioni tracciate da quegli stessi soggetti che, generazione dopo generazione, a partire da una contrazione progressiva delle forme di tutela del lavoro, si sono ritrovati a confrontarsi con una inedita scomposizione della vita quotidiana.
Tale scompiglio arriva a compimento oggi, con il dispiegarsi degli effetti della crisi economica, attraverso gli ultimi colpi assestati dal Jobs Act e, infine, grazie alla diffusione del lavoro gratuito. Questo ultimo aspetto rappresenta certamente una tappa ulteriore sulla strada di progressivi dumping sociali e salariali, ma è anche l’esplicitazione definitiva di una collisione: la mescolanza tra vita e lavoro, esperita dai precari, rende letteralmente impagabile il lavoro. Il “coinvolgimento” sul terreno del lavoro supera il rapporto salariale e fa saltare la dicotomia tra pubblico e privato, tanto più che la condizione precaria si attaglia particolarmente a professioni cognitive-relazionali e nell’ambito dei servizi, dove prevale l’utilizzo di conoscenza e di linguaggio, di emozioni e di corpi. Quasi tutte le manifestazioni del lavoro contemporaneo si misurano con tali dimensioni, pur con gradazioni diverse: il sorriso del precariato, la sua parola, è la cifra comune, in un supermercato, in un call center, per la badante che si occupa di un anziano, per il ricercatore che affronta l’ennesimo concorso, l’aspirante scrittore, la sex worker.
Attraverso il paradigma di precarietà si esprime l’ibridazione e la con-fusione tra piani diversi (il regno dello scambio; il regno dell’utilità). Si traduce dentro le pieghe di giornate “operose” che non hanno mai un vero inizio e una vera fine, dentro case dove si lavora ma anche si ama, nei cambiamenti frequenti di città o di nazione e dunque di lingua e di abitudini, nell’instabilità delle relazioni affettive che risponde al tramontodi istituzioni come la famiglia monogamica ma anche alla difficoltà di fare del mutamento un progetto, oppure attraverso i tanti ruoli variabili, a cavallo tra il produttivo e il riproduttivo, che può assumere la soggettività precaria (traduttrice e cameriera; ricercatore e pizzaiolo; casalinga e ghost writer; studente e commesso). Il soggetto precario, inoltre, è costantemente incitato a essere attivo e coinvolto nell’intero processo.
Tale pluralità di posture ed esperienze, una modularità che si fa curriculum è, in prima istanza, ciò che consente di riuscire a raccattare un reddito. Ma si tratta anche della raffigurazione più esplicita del fatto che la precarietà, forma generale dell’organizzazione del lavoro assunta nella attuale socialità e corporeità della produzione, esalta il nostro essere sfaccettate creature sociali prima ancora che lavoratori o lavoratrici.
In Italia, nella prima metà degli anni Novanta, mentre le scienze sociologiche faticano a mettere a fuoco questa soggettività composita, che pare marginale, la maggioranza degli economisti già da tempo insiste con entusiasmo sulle ricette liberiste. Il sindacato resta ancorato alla sua base, fatta di salariati e pensionati e i partiti politici sposano convinti, pressoché unitariamente, l’ideale della flessibilità. Nel frattempo, una parte del giuslavorismo comincia a sottolineare il rischio implicito nel crinale sul quale ci si sta avviando, la cui prima tappa consisterà nell’approvazione del cosiddetto pacchetto Treu, nel giugno del 1997.
Durante quei lunghi e strani anni, l’informazione non aiuterà nella lettura critica del percorso in atto, obliterando il proprio compito. Il richiamo iniziale sarà al bisogno di incrementare la flessibilità nel lavoro per avviarsi a essere “un paese normale”, in altre occasioni quello di opporsi ai “nullafacenti” con un lavoro stabile che godono di “privilegi”, oppure si farà appello allo scatto necessario per fare di se stessi persone “maggiorenni”, capaci di prendersi in carico i propri bisogni senza ricorrere agli orpelli dell’assistenza dello stato-balia. Si giocherà ampiamente anche sul conflitto generazionale. Lungo queste linee non è mancata, nel tempo, la costruzione di retoriche discorsive che puntano a ridicolizzare e infantilizzare la soggettività precaria (bambini; viziati; poco adattabili).
Nonostante la solitudine, soggetti non visti (gli invisibili) da nessun agente istituzionale (partiti, sindacati) o nominati solo per contrapposizione (gli atipici), insomma non-cittadini che restano fuori da un patto che finge ancora di costruirsi su promesse di futura emersione verso lo spazio dei diritti, contano su una forza che si rende palpabile per la prima volta nella storia: il possibile accesso massivo alla conoscenza attraverso processi di formazione sempre più larghi nonché attraverso l’utilizzo delle tecnologie da cui deriva una spinta irreprimibile verso l’autonomia. Effettivamente, l’accesso diretto a un mondo completamente intriso di conoscenza sembra rendere concreta l’utopia del poter uscire da forme obbligate di intermediazione, da rigide gerarchie, sistemi di controllo del sapere che hanno retto per secoli, mentre si modificano forme arcaiche di divisione del lavoro. Le tecnologie minimizzano le distanze, aiutano nella presa di parola, approfondiscono le possibilità di rispecchiamento e di collegamento.
Ricostruisco sommariamente questi passaggi per ribadire un percorso che oggi viene dimenticato, nell’ansia di mettere a critica le figure precarie del lavoro cognitivo-relazionale e di maledire il presunto ruolo centrale che sarebbe stato loro affidato. Mentre sempre si rimpiangono le maschie e robuste lotte operaie di altri momenti, dei precari viene messa in luce la fragile costituzione: di “natura” melanconici, sentimentali, addirittura esteti, quando non stanno sdraiati dalla parte del capitale, aspettano vigliaccamente il proprio turno all’interno di un mercato del lavoro dicotomico (insider/outsider) – da qualcuno ancora avvistato durante una qualche allucinazione.
Viceversa, dicevamo, la soggettività precaria, pur orbata di diritti, nasce come estremamente potente (orgoglio precario) e per nulla vittimista, sia grazie a una maggiore libertà da vincoli identitari, sia perché è espressione di quella “”intellettualità di massa” i cui aspetti caratteristici non possono “più essere reperiti sul lavoro ma sul piano delle forme di vita” (Paolo Virno, Grammatica della moltitudine, Rubbettino 2001, pag. 78). Nelle fasi iniziali della sua storia, la soggettività precaria si sostanzia, inoltre, del fatto di essere meno compressa nelle maglie del lavoro “dipendente” con i suoi vincoli di orario fisso, cartellini da timbrare, routine che durano una vita intera, insomma per essere – almeno apparentemente – più libera da quella arena della “fabbrica” che è stata teatro di infiniti atti di resistenza e di conflitto, nel passato, anche recente.
In principio, dunque, il precariato genera da sé una narrazione priva di accenti miserevoli, forte di una capacità “cre-attiva” che consente di inventarsi pratiche e teorie dentro territori fragili ma non colonizzati e ancora fertili. In quegli stessi anni, a Milano, il collettivo Chainworkers e poi San Precario, meglio di altri coglieranno, descriveranno e rappresenteranno tali linee. In questa figurazione, ancora nel 2005 i precari e le precarie saranno descritti attraverso le figure degli “Imbattibili”, “supereroici” del lavoro, dotati di speciali superpoteri che li aiutano a reggere nelle tempeste della precarietà scatenate contro di loro dal neoliberismo.
Cindy Sherman, Bus Riders Series, 1976
Un Manifesto per una nuova classe?
Dall’altro lato della Manica, Guy Standing, docente di Economia dello sviluppo alla Soas dell’Università di Londra, fondatore e co-presidente del Bien (Basic Income Earth Network) e ex-direttore del Programma sulla sicurezza socio-economica dell’Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro), ha osservato sin dagli esordi lo sviluppo di queste dinamiche. Al punto che si deve a lui l’aver propriamente importato in Gran Bretagna il termine precariato (precariat) con il suo libro del 2011 The Precariat. The New Dangerous Class (Bloomsbury), tradotto in Italia l’anno successivo con il titolo Precari. La nuova classe esplosiva (Il Mulino). Più o meno fino ad allora la parola “precariato” era poco diffusa in area anglosassone, senza dubbio del tutto inusuale nei contesti politici e accademici poco contigui alle aree di movimento.
Ho ritenuto necessario ricordare le circostanze, perché Standing stesso nella prefazione del suo ultimo libro Diventare cittadini, riconosce l’apporto significativo che i suoi lavori debbono agli stessi precari (“sono loro, i primi fautori di questo libro”), così come nel testo precedente era partito dalla descrizione della Mayday, successivamente Euromayday, per dare conto dell’esposizione della“classe dei precari” come “classe in divenire”.
Standing scrive dunque nella prefazione di questo ultimo testo:
Buona parte degli anni Novanta l’ho dedicata alla raccolta dei dati ricavati dagli studi su fabbriche e lavoratori riguardo la flessibilità e l’insicurezza ricerche sfociate in diverse pubblicazioni e quattro libri oltre a un ampio rapporto Ilo intitolato Economic Securityfor a Better World. In questo periodo ho avuto la fortuna di visitare decine di stabilimenti e aziende e di intervistare manager, imprenditori, lavoratori e famigliari, in diversi paesi, ricchi e poveri.
Dunque, “si impara vedendo e ascoltando le persone al lavoro”, una pratica che pare latitare grandemente nella politica europea contemporanea, del tutto cieca e sorda rispetto ai danni prodotti nelle vite delle persone dai propri dispositivi escludenti, aggravati dall’istituzionalizzazione di norme culturali che ammettono l’emarginazione per strati sempre più ampi della società. In particolare, secondo Standing, sono stati “i partiti laburisti e comunisti, i social democratici e i sindacati” ad aver mancato di immaginazione e strategia, continuando a disegnare un mondo fatto di pieno impiego e full time, un mondo che si struttura ottusamente sul suo carattere sessista e tende a tralasciare le forme di lavoro non alienato (compreso il lavoro riproduttivo e altre attività scelte autonomamente) e accantona “anche il concetto di libertà dal lavoro che occupava un posto di primo piano nelle epoche precedenti”.
Ecco qui un primo punto da ricordare à nos amis decisi a sbarazzarsi del termine “precarietà” perché in sostanza raffigurerebbe un fallimento: il fallimento è, purtroppo, di molti degli attori nominati da Standing. Non dà un piacere particolare notarlo, anzi. Il rapporto tra movimenti e istituzioni non si presenta mai nella forma lineare della richiesta (supplichevole) di una mediazione. Nel caso del precariato l’irrappresentabilità, molte volte citata, non corrisponde a una vocazione marginalista. Alle ragioni strutturali che si sono ricordate (non è base di partiti e sindacati, è fuori dalla fabbrica tradizionalmente intesa), va aggiunta la funzione importante svolta da un processo di “posizionamento in proprio” che ha aiutato ad acquisire competenza sulla propria storia e, soprattutto, l’estrema varietà dell’universo precario, trasversale a settori e a mansioni, a cavallo tra lavoro e vita. Standing annota, con grande lucidità, come nessun partito abbia raccolto la bandiera del precariato e come, durante le elezioni italiane del 2013, sia toccato a un movimento populista e manifestamente anti-politico, cioè al Movimento 5 stelle, “radunare le fila sparse e preparare la scena allo smantellamento trasformativo del potere politico del Novecento”.
Nel tempo, la tempesta si è fatta perfetta (“stagnazione economica, insicurezza cronica, diseguaglianza crescente e politica mercificata e di dubbia moralità”, elenca l’autore) e ciò che all’inizio poteva tentare di farsi sfida o scommessa – mentre le lingue di terra abitate dal lavoro “stabile” sono a loro volta battute da tutti i venti e si riducono per effetto della generalizzazione della precarietà, smettendo di essere d’approdo per alcuno – si è tradotto in uno tsunami di tracolli che spingono lungo l’asse dell’accettazione di qualsiasi lavoro, sempre peggio pagato e a confrontarsi con procedure sempre più umilianti e dure.
Le ispirazioni che pervadono il pensiero di Standing, convinto assertore della misura del reddito di base incondizionato (basic income), si mantengono limpide: si tratta di favorire il divenire cittadini dei non-cittadini, si tratta cioè di dare un contorno a questa “classe” che non è una “classe” in senso classico, che allude a una condizione, che è espressione di una soggettività molteplice eppure è ciò che connota il Ventunesimo secolo. E nelle premesse di questo libro, che vuole essere un vero e proprio Manifesto del precariato articolato in 29 punti, si elencano i dieci aspetti che possono essere utilizzati per focalizzare la soggettività precaria, favorendone la collocazione dentro una visione unitaria anche se non unica, così da innescare se non proprio processi costituenti di soggettivazione politica quanto meno possibilità di riconoscimento: instabilità del lavoro e contrattuale, mancato accesso alla distribuzione, mancato accesso alla cittadinanza, carenza di identità professionale, impossibilità di disporre del proprio tempo, tensione verso l’autonomia, scarsa mobilità sociale, iperqualificazione rispetto ai compiti assegnati, incertezza complessiva, trappola della povertà (o, meglio, della precarietà).
La denuncia dell’autore, perciò, è precisa, quanto impietosa la fotografia scattata nel presente. Gli imbattibili, quei precari “tutti santi” in coraggiosa lotta contro “tutti gli stronzi”, cioè i precarizzatori, si ritrovano invecchiati e indebolititi, portatori come sono delle difficoltà connesse alle politiche di austerity e alle dieci condizioni elencate da Standing a cui potremmo aggiungerne altre: ruolo del debito, crisi del Sé causato delle pressioni del regime di viseità, solitudine, alienazione, frustrazione.
Il lavoro di Standing è onesto, si inserisce dentro un filone di pensiero liberal, diffuso nelle aree anglosassoni, e dentro un’idea progressista e riformista che punta a riportare l’economia sotto il controllo democratico che deve fondarsi su un’idea di distribuzione, di riconoscimento della rappresentanza, di democrazia partecipativa.
Nel post-westfalianismo anti-neoliberale, negli articoli del suo Manifesto, Standing propone una organizzazione del potere politico che subordina il managerialismo burocratico all’emancipazione del cittadino, si batte contro il dogma utilitarista, contro il workfare, contro i confini per i migranti, le emarginazione dei disabili, la clericalizzazione della politica sociale, il “patto faustiano della socialdemocrazia” che, irretita dal desiderio di piacere ai ceti medi, ha abbandonato la propria vocazione solidale.
L’articolo 1 sancisce la necessità di “ridefinire il lavoro come attività produttiva e riproduttiva”dunque il principio che vadano tutte riconosciute tutte le forme di lavoro, compreso il lavoro di cura e il lavoro volontario, mentre “le politiche laburiste puntano a massimizzare il numero di persone che hanno un posto senza stare a pensare a quanto esso sia inutile, avvilente o prosciughi risorse”. Questa resta una dichiarazione fondamentale, quella da cui, a mio avviso, potrebbe discendere l’inclinazione in senso nuovo dell’intera società.
Standing dedica poi il suo articolo 5 a promuovere la libertà di associazione del precariato e quelli 6-10 al tema del “rifondare le comunità professionali, dunque le corporazioni, ivi compreso l’obiettivo di inserire la voce dei precari dentro commissioni che regolano le pratiche professionali e di promuovere attivamente la contrattazione collaborativa e il mutualismo. Con ciò, dal mio punto di vista, rischia di mantenersi dentro un’ispirazione che punta all’organizzazione del professionalismo, recuperando l’antico ruolo delle corporazioni delle arti e dei mestieri per quanto cerchi di inserirlo nella compagine nuova della lotta (che resta vaga) per i “beni comuni”. In ogni caso, l’autore centra fortemente il suo ragionamento sulla necessità di andare verso un reddito minimo universale e quanto meno evita di colpevolizzare il precariato per la situazione presente, riattivandone la coesione e la potenza: “Il precariato è ormai andato oltre lo stadio della massa avvilita fatta di persone sconfitte che viviamo nell’insicurezza e nella privazione con qualche sporadico gesto da ribelle per tirarsi su il morale. È andato oltre il riconoscimento della sua esistenza. I numeri stanno crescendo esponenzialmente perciò, per quanto ci provino, i poteri costituiti non possono negare l’esistenza del precariato o di ciò per cui lotta”.
Fotografia di André Kertesz, Balletto a New York, 1938
Riconoscimento o eguaglianza
Per tornare al punto da cui eravamo partiti, non può essere negata l’incapacità dei soggetti precari di organizzare forme di resistenza di fronte alla crisi, né il dramma dell’individualismo connesso alla condizione precaria che preme in senso inverso alle forme della sua organizzazione. Pur guardando seriamente – e senza sconti – all'impasse innegabile delle lotte sul terreno della precarietà, tengo a notare come si vada generando la costruzione precisa di un “discorso” che punta a espungere la precarietà, anche da un punto di vista terminologico, anche semplicemente come “parola”, mentre il Jobs act, nel generalizzarla definitivamente, a sua volta la rimuove.
Non si vuole e non si può essere contrari alle ipotesi mutualistiche promosse da Standing e da altri, anche in Italia. Il mutualismo può essere senza dubbio utile, date le circostanze, a incrementare nuove forme di sostegno e di associazione inedite, vista la crisi pressoché irreversibile della forma tradizionale del sindacato, la cui struttura non sa rispondere a una società nella quale il posto di lavoro non è più il baricentro e ha perso di senso il welfare state basato sulla figura del capofamiglia. Tuttavia, è fondamentale essere chiari e corretti: Standing a suo modo lo è, riconoscendo le origini dei sindacati di categoria “influenzati da artigiani e operai specializzati, non da proletari”. Questo significa, insomma, riconoscere la parzialità di alcune proposte, non pretendere di farne l’unica soluzione, né il percorso risolutore dopo tanto peregrinare, affossando il resto. Il problema che si può intravvedere in taluni progetti è che si prestino non a ricomporre ma a separare il lavoro, sulla base di specializzazioni e di richiami a competenze, non ovviando dunque alla questione generale e fondamentale del modello di esclusione differenziale imposto dal capitalismo bio-cognitivo finanziarizzato e dalle sue ideologie.
Se l’obiettivo del potere è quello di contrarre le forme di assicurazione collettiva, attraverso lo smantellamento progressivo del welfare, la vera battaglia non può che essere quella per l’allargamento in senso egualitario degli istituti di protezione sociale. L’articolazione socio-culturale del presente è talmente variegata e complessa che, come abbiamo cercato di ricostruire, nessuna figura del lavoro contemporaneo può dirsi completamente ricompresa dentro un solo ruolo professionale, esattamente come riconosciuto dall’articolo 1 del Manifesto di Standing (“ridefinire il lavoro come attività produttiva e riproduttiva”). Perciò, non va dimenticata mai la necessità di riqualificare gli istituti welfaristici, adattandoli alla nuova situazione e in senso sempre più universalistico. Da questo punto di vista, il perno della misura di un basic income universale e incondizionato, pare non eludibile. Chi non lo ammette è, a mio avviso, poco credibile.
Svilire il “punto di vista precario”, rinnegare le esperienze fino qui condotte, pure entro cadute, errori e difficoltà, significa fare un passo indietro rispetto a un percorso ispirato al principio che, per andare avanti, sono necessarie forme sconosciute di sperimentazione e di azione collettiva. Lo stesso Standing ammette: “storicamente, la forma con la più alta potenzialità di progressi o più efficace, non è mai chiara all’inizio”.
Le forme di mutualismo sono state l’incipit per lo sviluppo delle organizzazioni sindacali generalizzate che abbiamo conosciuto e che sono state indubbiamente fautrici di evoluzioni importanti. Bisogna essere attenti a non limitarsi all’obiettivo del riconoscimento della particolarità e del merito di alcune fasce – che corrisponde agli imperativi neoliberali della “vocazione” e del “valore” del singolo – in modo autoreferenziale e di nicchia. La cognizione del tratto unificante, impermanente, delle condizioni di lavoro e di esistenza della contemporaneità, mi pare l’unica vera bussola da seguire per orientarci verso una società più solidale e più giusta.